Emme Rossa |
Il
1948 è stato un anno cruciale per la storia del nostro Paese. Le elezioni del
18 Aprile fissarono un punto fermo nel delicato clima del dopoguerra.
L’Italia rimase nell’area occidentale che si era venuta a creare dopo la
spartizione di Yalta, le speranze dei comunisti di avere un governo simile a
quello di tanti paesi dell’est europeo, fallirono clamorosamente.
Vi
erano già state le elezioni del 2 Giugno 1946, per la scelta tra Monarchia e
Repubblica e per l’assemblea Costituente, vinse la Repubblica tra tantissime
polemiche, ma il vero scontro tra le due opposte visioni, tra coloro che
avrebbero gradito l’appoggio del comunismo dell’Unione Sovietica e quelli
che invece davano la loro adesione alla concezione liberal-capitalista, con
l’appoggio americano, in realtà i veri vincitori della guerra e del
dopoguerra, avvenne due anni dopo.
Il
18 Aprile 1948, la Democrazia Cristiana stravinse, ottenendo 12.740.000 voti
con il 48,51% e conquistando 306 seggi, mentre il Fonte Popolare (socialisti e
comunisti) raggiunse 8.136.600 voti e il 30,98%. Si presentò per la prima
volta a quelle elezioni anche un piccolo partito di ex nostalgici e di coloro
che non accettavano quella spartizione: era il Movimento Sociale Italiano che
ottenne sei seggi in Parlamento con 526.000 voti conquistati solo su parte del
territorio italiano dove gli uomini, che avevano da pochi mesi fondato quel
gruppo politico tra mille difficoltà, erano riusciti a presentare le liste
elettorali.
A
quindici anni, tanti ne avevo in quel tempo, non mi era ancora ben chiara la
situazione della società italiana. In realtà i miei problemi principali
erano: il divertimento, lo sport, il cinema, gli amici e, per non deludere le
attese dei genitori che tanti sacrifici facevano per mandarmi a scuola, anche
lo studio.
I Cordigeri
Frequentavo,
allora, il gruppo dei “Cordigeri” aggregato
al Convento dei Frati Cappuccini di Via Ganaceto, dove i giovanissimi erano
seguiti e nei giochi e nell’educazione religiosa del catechismo, dai coniugi
Secchiari.
Facevo
parte del coro, guidato dal Sig. Secchiari Ugo e la nostra “messa cantata”
particolarmente quella scritta dal maestro “Lorenzo Perosi”, otteneva in
città un grande successo. La Chiesa dei Frati Capuccini di Via Ganaceto era
sempre strapiena alla Domenica durante la messa principale delle undici, per
merito anche dell’ottimo collettivo del nostro coro che si esibiva in quella
splendida esecuzione, della messa del Maestro Perosi.
Nelle
date più importanti della Chiesa Modenese, si partecipava alle lunghe ed
interminabili processioni che attraversavano le strade della città, tra due
fitte ali di folla composta e in preghiera.
Ma
l’impegno e la fatica più grossa per noi giovani era quella relativa al
portare, per tutto il tragitto della processione, pur alternandoci nel
trasporto, uno dei grandi stendardi, pesantissimi, della nostra confraternita.
Era
uno sforzo notevole che veniva fatto con entusiasmo e dedizione, che ci
gratificava per la nostra appartenenza a quella importante famiglia, della
quale ricordo con particolare simpatia gli uomini più attivi e
rappresentativi quali, i fratelli Benzi, Franco e Giordano, titolari di uno
dei più importanti negozi di falegnameria artigiana della città, in Via
Fonteraso nel palazzo Margherita, vicino all’ingresso della Società Panaro.
Oltre al Dott. Carlo Luppi, ai fratelli Saguatti, Nello, Nino e Giordano, il
Geom. Selmi, Angelo Marchetti, Paolo Koenig, Gianni Sartoris, Mariotti,
Biondini e tanti altri di cui mi sfuggono le generalità.
Ci
si dedicava inoltre all’attività sportiva: avevamo costituto una squadra di
calcio ed una di pallavolo dopo aver costruito il campo regolamentare
all’aperto, nel giardino posteriore del palazzo di Via Ganaceto, ove si
trovava la nostra sede e che era situato tra il palazzo, allora sede del PCI,
ed il Palazzo Campori.
Le
partite di calcio le andavamo a disputare particolarmente contro le squadre
d’altre parrocchie che avevano a disposizione campetti, come quelli della
Chiesa di San Cataldo, di San Domenico e del Tempio. Erano sempre partite
accanitissime.
Gli
incontri di pallavolo erano più spesso disputati sul “nostro” campo di
Via Ganaceto.
Nello
stesso tempo, avendo frequentato la terza media in quel di Sassuolo, dopo le
traversie della guerra, diventai molto amico (amicizia rimasta nel tempo) con
un ragazzo dell’“altra parrocchia”. Otello Incerti, comunista doc, anche
negli anni a seguire. Lui era della “Sacca”, rione rosso per eccellenza,
io ero spesso a casa sua per due ragioni. Aveva una splendida sorella che
dormiva nella sua stessa camera, irraggiungibile (anche perché era più
grande), inoltre gli piaceva giocare a calcio; alcune volte aveva indossato la
maglia della mia squadra, quella del TOF (Terz’Ordine Francescano). Si
andava a giocare anche nel “suo” campo alla Sacca, poiché con noi veniva,
qualche volta a giocare, un ragazzo veramente molto bravo, che sapeva darci
utili suggerimenti del come migliorare nel trattamento della palla, un certo
Gianni Seghedoni, diventato poi noto giocatore e allenatore di squadre di
serie A.
Modena FC e Fratellanza
Il
nostro rapporto di amicizia, scolastica e sportiva, anche se ci divideva sul
piano ideologico e politico, ci univa sul piano sociale e comportamentale.
Entrambi d’origine proletaria, avevamo la stessa passione per lo
sport, per la ricerca del nuovo e per il miglioramento delle nostre posizioni
economiche. Frequentammo la stessa scuola superiore, andammo assieme a giocare
per un brevissimo periodo nei “ragazzi” del Modena
F.C., del mitico allenatore Mabelli, dove ritrovai tra i coetanei, il mio
ex vicino di casa (eravamo entrambi nati nello stesso anno 1932 e nella stessa
via Cesare Battisti, dove le nostre madri erano ottime amiche) Sergio
Brighenti, anche lui destinato a grandi traguardi calcistici.
Io
però, oltre a non essere all’altezza, dal punto di vista calcistico, dei
nomi che ho citato, mi interessavo a tante altre esperienze, il cinema, le
ragazzine, la politica, lo studio, di conseguenza mi allontanai da quel mondo
per passare ad uno sport “individuale”, che sentivo più consono alle mie
caratteristiche che già a quei tempi si esprimevano in chiave personalistica;
mi iscrissi pertanto, con l’amico, alla Società Sportiva “La
Fratellanza” per praticare l’atletica leggera sotto la sapiente guida
dell’allenatore Piero ”Pirein” Baraldi.
Entravo
nel periodo molto difficile per la crescita di un adolescente, si iniziava a
partecipare alla vita e si trattava di fare delle scelte, di collocarsi
ideologicamente o da una parte o dall’altra.
Era
come trovarsi, seppure in una dimensione meno pericolosa, nel periodo tragico
e drammatico della guerra civile di pochi anni prima, dove un giovane era
costretto a schierarsi, o con i fascisti che nel bene o nel male avevano
partecipato all’indottrinamento avuto da quel regime, oppure con coloro che
si rifugiavano in montagna per spirito di contestazione alla formazione
ideologica ricevuta, o che si nascondevano nell’attesa della vittoria di una
delle due parti in lotta.
Il
dopoguerra ci aveva portato tanti esempi di giovani, di poco più grandi di
noi, che avevano fatto delle scelte che, in concreto, per molti risultarono
vincenti, ma per tanti altri portarono a delle vere e proprie allucinanti
situazioni di vita. Erano gli stessi giovani, gli stessi fratelli, gli stessi
amici o vicini di casa che, per ragioni a volte imponderabili o semplicemente
lasciate al caso, si arruolavano, o con quelli che indossavano la divisa
militare, o con gli altri che ritenevano giunto il momento di ribellarsi a
quel regime che aveva avuto per venti anni il predominio in Italia e che li
aveva portati ad una guerra che andava via via facendosi sempre più
difficile, intravedendosi, già in quei tempi, la probabilità della
sconfitta. Chi aveva indossato la divisa militare, alla quale era stato
educato e/o condizionato, si trovò al termine del conflitto, se era riuscito
a salvarsi la vita dopo i massacri indiscriminati del dopo “liberazione”,
ad essere emarginato, allontanato, dalla società con condanne di morte civile
propinate attraverso, epurazioni, allontanamenti dai posti di lavoro e dai
pubblici uffici che rendevano loro impossibile un regolare reinserimento nella
vita lavorativa del dopo guerra. Mentre gli uni (la maggioranza a guerra
ultimata) che, a parte pochi per vera e propria convinta ideologia, si
trovarono, fortunosamente schierati con lo schieramento che aveva seguito gli
anglo-americani, in realtà i veri vincitori di quel tremendo conflitto
mondiale, ebbero poi facile accesso alle arrampicate sociali di qualsiasi
tipo.
Anche
noi, della generazione successiva a quella che aveva vinto o perso la guerra,
che fossero della “generazione che non si è arresa “ o di quella che ha
conquistato il potere per meriti altrui, ci siamo trovati nella difficile
situazione, seppure a guerra conclusa, di fare delle scelte che ugualmente
risultarono, vincenti o penalizzanti, dal punto di vista economico e sociale.
La
mia estrazione avrebbe dovuto condurmi sulla barricata proletaria e
socialista, dove in realtà mi sono sempre trovato e mi ci trovo tuttora, come
mio padre mi aveva indicato (non ebbe mai in tasca, durante il ventennio, la
tessera del partito) e dove si è sempre collocato mio fratello, che andò a
combattere, e a lasciarci la vita, per quell’ideologia che prometteva la
giustizia sociale senza le storture del comunismo e del massimalismo
socialista.
E’
difficile oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, valutare nel modo giusto, le
scelte fatte in giovane età nell’immediato dopoguerra. Col passare degli
anni, avrei potuto, come hanno fatto tanti amici e camerati degli anni
giovanili, “voltare gabbana” e avere tutti i privilegi, partecipando alle
celebrazioni resistenziali, che lo stare con il potere comporta.
N’avrei
tratto vantaggio io, la mia famiglia, i miei figli: al contrario, ho
continuato sulla strada più difficile e scomoda.
Il
sacrificio del fratello maggiore? Lo dovevo completamente annullare e
dimenticare dai miei ricordi? Ci fosse stato da parte dei “nuovi” al
potere il riconoscimento, almeno formale, di “coloro che si sono trovati
dalla parte sbagliata” in buona fede, oppure per circostanze fortuite, e poi
avviati a quella scelta dall’educazione ricevuta da parte di tanti adulti
che, intravista “l’aria” che tirava, passarono immediatamente con i
nuovi padroni. Quei giovani sono stati completamenti demonizzati e si è
voluta cancellare completamente la memoria storica delle loro esistenze. Forse
in quel modo si poteva evitare di procrastinare negli anni e sino ad oggi, il
concetto di guerra “di liberazione” per i vincitori e di guerra civile per
tutti gli italiani.
Non
era possibile per un ragazzo di quindici–sedici anni valutare, come grave ed
imperdonabile errore, quello che aveva fatto il fratello maggiore, oltretutto
convinto delle sue scelte.
Istituto Tecnico nJ. Barozzi in Corso Cavour
Mi
trovavo in quest’enorme dilemma quando, terminate le scuole medie, mi
iscrissi, con grande sacrificio dei miei genitori, alla scuola superiore e
precisamente all’Istituto Tecnico per
Geometri e Ragionieri che aveva sede in Corso Cavour. La mia scelta cadde
sulla sezione per Geometri. Voluta con tutte le mie forze, poiché, con la
casa distrutta dal secondo e pesante bombardamento di Modena e dopo lo
sfollamento nelle campagne di Ravarino, ritornammo in città al termine della
guerra, ospiti di una famiglia in una bella villetta in Via Celestino Cavedoni,
(la strada di fronte alle ex Aziende Municipalizzate). Erano state emanate
disposizioni per aiutare le famiglie in difficoltà, coloro che avevano
abitazioni con molti locali dovevano cederne alcuni alle famiglie, private di
un tetto, a causa dei bombardamenti. La proprietà nella quale arrivai da
sfollato era quella del Direttore della Cassa di Risparmio di Modena, Rag.
Giovanni Pederzini, che fu, assieme a tutta la sua famiglia, veramente
disponibile nei nostri confronti. Al momento dell’iscrizione alle scuole
Superiori mi venne proposto di iscrivermi a Ragioneria; la possibilità di una
carriera di impiegato di banca era quasi assicurata (a quei tempi l’impiego
bancario era, come si diceva, “un terno al lotto”). Rifiutai
categoricamente, perché allora, ritenevo il rinchiudermi in un ufficio, una
specie di “morte civile”. Optai per la strada del Geometra che, in teoria,
mi avrebbe dato la possibilità di svolgere un lavoro “all’aria aperta”.
Va rilevato che per la mia famiglia, in quei bui anni, quella era una scelta
difficile e dispendiosa e inoltre non avrei potuto mai scegliere una scuola
tipo liceo che avrebbe obbligato ad una continuazione universitaria. Troppo
lunga e costosa.
Qui,
all’Istituto Barozzi, ebbi la possibilità di formarmi tante amicizie e
conoscenze che mi avrebbero poi dato la possibilità di inserirmi in un mondo
che a quei tempi nemmeno sognavo. Le mie origini, come già detto, erano
sicuramente “proletarie” e povere. Sin d’allora la mia ideologia era
decisamente, come poi è rimasta, socialisteggiante, anche quando mi trovai a
frequentare il mondo borghese e del capitale, della cosiddetta “buona”
società modenese, anche per la mia professione definitiva, quella di
insegnante e di libero professionista.
Ma
perché, mi chiedevano i conoscenti e i parenti, non ti sei collocato in
quell’area emergente social-comunista che, con il potere politico prima ed
economico poi, come si intuiva, ti avrebbe dato la possibilità di costruirti
con sicurezza il futuro?
I
contatti e le proposte c’erano stati, molti miei amici borghesi passavano,
gradualmente, dalla parte dei nuovi padroni, le carriere politiche, sociali ed
economiche erano alla portata di mano. Lo stato di conflitto interno era di
conseguenza enorme: le frequenze nel mondo cattolico, con tutte le
contraddizioni che vi avevo trovato, avevano creato in me una crisi religiosa
di notevoli dimensioni. Le amicizie con ragazzi d’altro pensiero politico,
la presenza in famiglia di concezioni etico-politiche di sinistra, mio padre
socialista, uno zio materno comunista, mi mettevano in continuazione di fronte
a queste crisi esistenziali e di pensiero.
Ero
pertanto nel pieno della crescita e della difficoltà nelle scelte quando
entrai all’Istituto Tecnico J. Barozzi.
In quelle aule feci un incontro e trovai una sincera e duratura
amicizia con un ragazzo d’estrazione tipicamente borghese, figlio di un noto
medico, situazione socio economica decisamente alta per quei tempi; aveva
avuto un fratello ucciso dai partigiani nel maggio del 1945 (la sua salma non
è mai stata ritrovata), molte cose ci univano, seppure con una certa visione
divergente su alcune problematiche. Amico allora ed ancor più oggi. Maurizio
Rebucci.
Si
frequentava insieme la compagnia del centro, le aule scolastiche, il cinema e
i tanti altri aspetti di una giovinezza, che in realtà per la maggioranza
della nostra generazione è stata allegra e divertente, contrariamente a
quella che ci aveva appena preceduto.
Trattoria del Bersagliere
Assieme
all’amico si andò una sera ad una riunione che si svolgeva alla trattoria
del “Bersagliere” in Via Gallucci, dove si incontravano i primi
uomini, ex fascisti, postfascisti, e uomini liberi che da poco tempo avevano
costituito a Modena la sezione del Movimento Sociale Italiano.
Forse
attratto dal nome della trattoria che ricordava il trascorso di mio fratello,
convinto dall’amico e desideroso di approfondire i temi che questo partito
enunciava, oltre che per cercare di conoscere alcuni dei personaggi della
“generazione che non si era arresa”, mi recai a quell’incontro, dal
quale ne uscii alquanto perplesso. Né critico, né entusiasta per quello che
avevo sentito. Si parlava di Patria, di conquiste sociali di equidistanza da
capitalismo e comunismo, insomma tutti temi che, a grandi linee, si potevano
condividere. Nello stesso tempo consideravo velleitario e anacronistico il
ricordo esasperato del periodo del ventennio, anche perché la mia famiglia
aveva subito le conseguenze devastanti del conflitto appena terminato. La casa
distrutta, lo sfollamento, il fratello morto in Russia, la miseria degli anni
del dopoguerra, non potevano certo portarmi ad entusiasmarmi per un regime
sconfitto. L’arrivo poi degli
americani, con la loro ricchezza e spavalderia, con i loro film e la loro
musica, portavano noi, della generazione successiva a quella del periodo
fascista, ad entusiasmarci facilmente per tutte queste nuove conoscenze e per
questo nuovo mondo che sembrava promettere, a breve, una società ricca e
aperta ad ogni possibile iniziativa. Tutte queste nuove conoscenze, che ti
arrivavano addosso nell’età in cui ti appresti a conoscere e ad affrontare
il mondo e tutto quello che incontri ti sembra bello e ineguagliabile, possono
veramente condizionare le scelte di un giovane.
Allora
gli entusiasmi di mio fratello e di tutti gli altri giovani, per non dire
della stragrande maggioranza del popolo italiano, per quel mondo che io avevo
appena intravisto e del quale parlava con entusiasmo nei suoi scritti: e le
scelte che aveva fatto, erano stati solamente degli abbagli, delle chimere o
dei falsi miti?
Rimasi
perplesso per un certo periodo, poi, a distanza di alcuni mesi, presi la
decisione di iscrivermi a quel partito senza darne comunicazione, se non dopo
parecchio tempo, ai miei familiari.
Ing. Mario Camerini
In
quel periodo frequentavo costantemente, la casa dell’Ing.
Mario Camerini che, assieme alla sorella Lia, mi seguirono nella
preparazione dei miei studi e dei miei esami per alcuni anni.
Era stato ottimo amico di mio fratello e prese a volermi bene come si
fa con un fratello minore. Assieme a lui ebbi la fortuna di essere seguito e
“controllato” da altri carissimi amici di mio fratello che, quali
“tutori”, cercarono, laddove era loro possibile, di seguire i miei primi
passi da adolescente e da studente delle scuole superiori e nello sport, erano
i miei futuri colleghi Franco Anderlini, Ferdinando Ponzoni, Luciano Gambetti
e Nino Bertacchini.
Il
Sig. Mario, come lo chiamavamo, io e gli altri due cari amici, Otello Incerti
e Alberto Paltrinieri con i quali si frequentava quella casa per prendere
lezioni in alcune materie è stato, certamente, un personaggio eccezionale.
Di
vastissima cultura, come la sorella Lia che c’insegnava la lingua francese,
dotato di grande umanità e di una personalità spiccatissima, personaggio
eclettico ed estroverso, ci istruiva nelle scienze fisiche e matematiche e nel
disegno tecnico; è stato, tra l’altro, un grande progettista, mi ha dato
sicuramente, delle grandi lezioni di vita. Debbo tantissimo alla sua umanità,
alla sua disponibilità, alla sua pazienza nel cercare di indirizzarmi nel
modo migliore, nel controllare le mie ribellioni e il mio carattere a volte
esuberante, ma incostante e volubile, per far sì di incanalarlo sulla strada
dello studio e nella perseveranza della ricerca di brillanti risultati anche
nella vita sociale. Di frequente, si alternava, nell’insegnamento ai tre
giovincelli, il cugino dell’ingegnere, studente universitario, anche lui
dotato di grande intelligenza e personalità: il Dott. Mario “Cicci”
Roganti, diventato poi uno dei più noti cardiologi modenesi. Una famiglia
dunque, di grandi ingegni, che lasciò in me un bagaglio di cultura e di vita
che mi è servito tantissimo. Abitavano in piena Via Emilia Centro, con
entrata da Via Torre, in un bell’appartamento esattamente di fronte alla
Ghirlandina. Durante le ore di lezione o in quelle di relax, che si passavano
in quella casa, dalle ampie finestre potevi quasi toccare con mano lo
splendido spettacolo dell’abside romanico del nostro Duomo e la snella
figura della torre.
Ebbi
anche il piacere negli anni successivi, mentre frequentavo la quarta e la
quinta classe, di svolgere un praticantato della professione di Geometra, con
l’ing. Camerini, disegnando alcuni dei progetti più importanti della sua
vastissima attività di progettista, quali la Casa di Cura “Villa Laura”
del prof. Sergio Ferrari in Via Prampolini, la villa “Hansberg” in Via
Archirola, e di alcuni palazzi di Viale Verdi e Via Bellinzona.
Mi
permise, tra l’altro, in alcune occasioni, di usufruire della sua abitazione
per l’organizzazione di alcune “festine private” al pomeriggio del
sabato o della domenica, assieme ai miei amici e amiche, dato che non avrei
potuto farlo a casa mia.
Quella
delle festine private fu, per un certo periodo, una delle tante esperienze
fatte in quegli anni con la “compagnia del Centro” nelle case di molti
amici tra i quali vorrei citare l’indimenticabile Ivan Manicardi (scomparso
per un incidente stradale a poco più di venti anni), Giacomo Manni, Maurizio
Rebucci e tanti altri.
Sale da ballo e balere
Ma
poi prese il soppravento la passione per le sale da ballo o “balere”:
per lunghi periodi, praticamente tutte le sere e i sabati pomeriggio (the
studenteschi) si andavano a passare con varie compagnie, (non solo per
conoscere le ragazze con le quali iniziavano le prime avventure, ma
fondamentalmente per stare sempre in allegria), ore su ore nei vari locali
quali: il Ragno Azzurro (nell’ex casa del Mutilato in Viale Muratori), il
Rifugio Verde (a San Faustino), l’Astoria (il salone delle Feste
dell’Hotel Fini), il Circolo Centrale (o dei Postelegrafonici), il Tombolo
(alla Crocetta), il mitico Settimo Cielo (sia estivo che invernale, sopra al
Cinema Principe in Piazzale Natale Bruni), il Sirenella (nella ex casa del
fascio di Via Montegrappa), il Garden (prima estivo poi anche nella versione
invernale, di proprietà del mio Prof. di Matematica e Fisica, “Poldo”
Piccagliani, del quale avrò modo di parlarne più diffusamente) e poi negli
anni a seguire il Mocambo, l’Eden in Piazza Matteotti e ancora a Cognento da
“Aicardi” oltre ai locali della Provincia, in particolare quelli di
Sassuolo, Formigine e Vignola, facilmente raggiungibili con il trenino della
Sefta, solamente alla domenica pomeriggio, poiché a quei tempi, alla sera, i
trenini delle Ferrovie Provinciali non viaggiavano.
Tutto
questo, però, andava a scapito dello studio e dello sport. La mia situazione
scolastica, in certi periodi, è stata abbastanza precaria, anche se poi nei
vari “rush” finali o a giugno e qualche volta ad ottobre, riuscivo sempre
a venirne fuori dignitosamente.
Sospensione in terza Istituto
Una
delle situazioni più delicate nelle quali mi trovai, fu quella del terzo
anno all’Istituto. Era abitudine per il nostro gruppo di amici, a scuola
e fuori, farci in continuazione scherzi e prese in giro. Era nella norma, in
quel periodo, riempire le pagine dei quaderni di alcuni “malcapitati” con
figurazioni “oscene”. Disegnavamo, sui fogli intonsi, enormi figure
dell’organo genitale maschile che, in ultima analisi, altro non facevano,
che rendere inservibili i quaderni o i fogli da disegno dove venivano
raffigurate queste “opere d’arte”.
Accadde,
un bel giorno a metà anno scolastico, che durante l’ora di disegno
nell’aula apposita, andai a siglare con una di quelle opere, il foglio di un
compagno di classe. L’insegnante, una professoressa già anziana, se ne
accorse, scoperto il colpevole del misfatto e “scandalizzata” lo spedì
dritto, dritto in Presidenza.
Il
Preside, sconvolto da un simile comportamento, convocò urgentemente il
Consiglio d’Istituto e il povero ragazzo, autore di quell’”atroce
misfatto”, venne condannato a 15 giorni (quindici) di sospensione. Da notare
che oggi un simile episodio costerebbe più all’insegnante che
all’allievo. Oltre ai quindici giorni di allontanamento dalla scuola (per
poco non fui radiato da ogni ordine e grado della scuola italiana) ci fu anche
il cinque in condotta nel secondo trimestre. Mi trovai in un vicolo cieco, non
dissi nulla ai miei genitori fingendo, ogni mattina, di recarmi a scuola, ma
in realtà andavo ai giardini pubblici, luogo d’incontro di tutti i
“cabottisti” (coloro che marinavano la scuola). Ma un giorno arrivò a
casa la comunicazione della scuola che annunciava ai miei genitori il
comportamento disdicevole del loro maldestro figliolo.
Convinto
ormai della mia sicura bocciatura mi lasciai completamente “andare” e sino
alla fine dell’anno scolastico non toccai più un libro. Fortunatamente
alcuni insegnanti, che mi volevano bene, non accettarono quel verdetto e
capirono il mio piccolo o grande dramma, mi aiutarono dandomi la sufficienza
anche se non la meritavo, mentre quattro tra i più intransigenti mi
rimandarono ad ottobre nelle loro materie. Riuscii ugualmente a salvarmi, dopo
una “sgobbata” estiva non indifferente.
Legione Straniera
Quell’episodio,
oggi da considerarsi veramente banale, avrebbe potuto portarmi ben più gravi
conseguenze se avessi messo in atto un progetto che si stava preparando in
quei giorni. Due amici di partito, Enzo Beltrami e Brenno Moretti avevano
preso la decisione di partire per la Legione
Straniera (mito di tanti giovani di destra a quel tempo) e io avrei dovuto
aggregarmi a loro. Anche perché subivo, in parte, (erano più vecchi di me di
due o tre anni), la loro audacia e la loro forte personalità. Nel frattempo,
nel mio intimo, sentivo fortemente la responsabilità per il gran dispiacere
che avrei portato ai miei genitori, unico figlio rimasto, in quanto erano
ancora sotto pressione per il fratello maggiore scomparso in Russia che i
giornali, a otto anni di distanza davano ancora come prigioniero, di
conseguenza feci marcia indietro all’ultimo istante.
Dei
due “avventurieri” uno, Brenno, si rifugiò in Svizzera prima
dell’arruolamento; l’altro Enzo Beltrami si arruolò, si fece tutto il
servizio di addestramento, prima di esser “spedito” in Indocina a
rimpolpare le truppe francesi a Dien Bien Phu.
Il
legionario però, in vista delle coste indocinesi, assieme ad un commilitone
si gettò dalla nave (se fosse stato ripreso dai francesi sarebbe stato
fucilato come disertore), rimase quattro giorni in mare, per essere
“ripescato”, fortunatamente, seppure in condizioni disperate, da pescatori
indocinesi. Dopo qualche tempo riuscì a rientrare in Italia.
Un
episodio analogo per le conseguenze, un giorno di sospensione, mi capitò in
quinta classe, ultimo anno di scuola ed anche questo durante il secondo
trimestre. Di fronte al portone d’ingresso dell’Istituto Jacopo Barozzi,
in Corso Cavour, vi era un deposito di biciclette che ovviamente serviva, in
gran parte, alla popolazione studentesca di quella scuola. Eravamo diventati
amici del proprietario o gestore il quale aveva un bimbo piccolo, di
tre-quattro anni, spesso con sé. Una mattina chiedemmo al padre la possibilità
di condurre con noi in classe il figlioletto, il quale era ben contento di una
simile avventura. Il genitore diede il suo consenso di buon grado e noi
portammo il bimbetto nell’aula di Topografia, al secondo piano
dell’Istituto, dove quella mattina avevamo lezione.
ll fantolino
Insegnante
della materia era l’Ing. Cattaneo, un bravissimo
insegnante e una buonissima persona che, molto spesso, aveva difficoltà a
tenere sotto controllo la nostra classe, 5°A, la quale, usando un eufemismo,
era alquanto esuberante. Il bambino fu tenuto buono e tranquillo, nascosto
dietro gli ultimi grandi banchi per il disegno, con caramelle e lecca lecca,
ma dopo mezz’ora iniziò a fare i capricci. L’Ingegnere sentendo quella
voce querula di bambino, “in primis” cercò di far smettere quello di noi
che si stava divertendo nel fare quelle “vocine”, poi, incuriosito si
avvicinò agli ultimi banchi e con enorme sorpresa si trovò di fronte il
“fantolino”. “Cosa ci fa in quest’aula quel bambino?” chiese, e noi
a supplicarlo che non si poteva lasciare sulla strada un trovatello, forse
orfano, dovevamo per forza tenerlo con noi, ecc.ecc. Per un po’ rimase
perplesso, ripeto era un uomo buonissimo, ma subito ci invitò a riportalo
dove l’avevamo trovato o quanto meno a consegnarlo ai bidelli. Presi il
bambino in braccio e al momento di uscire dall’aula gli dissi di salutare
con la manina; lui lanciò un fortissimo “ciao nonno” che fece sbellicare
dalle risate, tutta la numerosa classe. Io con il bambino in braccio mi trovai
nel corridoio di fronte al Vice Preside Prof. Vandini, insegnante di tedesco
che stava facendo lezione nella classe vicino alla nostra, alla sezione
ragionieri. Era considerato un insegnante intransigente un “duro” e
difatti era solito entrare, a volte, improvvisamente nei gabinetti dove,
durante l’intervallo, (avvolti in una nuvola di fumo, si andava a fumare,
passandocela l’uno con l’altro una sigaretta), alla ricerca, con relativa
punizione, del malcapitato che veniva trovato con la sigaretta in bocca.
Era
uscito dalla sua aula, sentendo tutto quel baccano, e mi trovò come si suol
dire, “in castagna”; andammo immediatamente in Presidenza e il bambino
venne consegnato ai bidelli per esser riportato al genitore. Io rimasi in
quell’ufficio, seduto di fronte alla scrivania del Preside, il Prof. Mario
Negri, per l’interrogatorio, quando, dopo circa un quarto d’ora si sentì
bussare alla porta, vidi entrare, a capo chino, il mio compagno di tante
avventure e carissimo amico e poi collega, Argeo Tedeschi, il quale, in classe
durante la mia assenza, si era preso il compito di fare una petizione con le
firme di tutti gli alunni per dichiarare che tutta la classe era responsabile
dell’accaduto. Ci fu un intoppo, uno della classe, che in realtà era sempre
stato ai margini delle varie iniziative che intraprendevamo, si rifiutò,
prendendosi due sonori ceffoni dall’amico, alquanto “focoso”.
Il
buon ingegnere non potè far altro che mandare l’amico in Presidenza. Fummo
sospesi per un giorno, in considerazione del fatto che si era in ultima classe
e che a distanza di pochi mesi avremmo dovuto sostenere l’Esame di Stato. La
conclusione fu che a Luglio, (allora l’esame durava quasi tutto il mese) io
e l’amico fummo promossi (con grande sorpresa di tutti gli altri, mentre la
quasi totalità della classe dovette riparare ad ottobre ed alcuni furono
anche bocciati (cinque promossi su trentacinque era veramente una percentuale
assai ridotta).
Gli anni ’50 furono, per i giovani modenesi, tempi di “vacche magre”; già erano pochissime le lire che giravano nelle tasche dei diciotto-ventenni quando, all’inizio di quell’anno di mezzo secolo, una “illusa” senatrice socialista propose una legge che avrebbe dovuto redimere le donne che si dedicavano al mercimonio del loro corpo, attraverso la chiusura delle case di tolleranza.
Via Catecumeno
Qualche volta, noi sedici-diciasettenni, facevamo il
tentativo di entrare in uno dei “casini” di Via
Catecumeno, ma la maitresse alla porta ci pizzicava sempre nei nostri
ridicoli tentativi di “camuffare” la data di nascita sulla carta
d’identità di conseguenza venivamo metodicamente rinviati a casa.
Attendevamo
l’alba dei nostri diciotto anni per avere la possibilità di fare de nostre
prime esperienze “legali” quando la senatrice socialista, quasi come “la
signora” che ci chiudeva in faccia il portone della casa del “piacere”,
mise un freno alle nostre aspettative. Modena
e Palermo furono, in quell’anno, le due città “cavie” in tutta Italia,
per la sperimentazione di quella che poi è rimasta bollata come la
“famigerata “Legge Merlin”, dal nome appunto della senatrice socialista.
La
nostra città e quella del profondo Sud, dovevano dare la risposta esaustiva
che, la chiusura delle “case chiuse”, era un atto dovuto
all’emancipazione femminile e non avrebbe creato problemi di sorta per
l’ordine pubblico. Per otto anni, modenesi e palermitani furono,
contrariamente a tutti gli altri italiani, salassati nelle loro tasche per la
strana applicazione di quell’ “esperimento”. Sì, perché la chiusura
definitiva delle case, celebrate in un film di Tinto Brass, “Paprika”,
avvenne il 19 Settembre del 1958. Noi
ci siamo sempre chiesti, senza averne mai avuto una risposta esauriente, perché
furono “penalizzati” i modenesi, in particolare, studenti, disoccupati,
insomma le classi meno abbienti, che dovettero aggiungere una “tangente”
in più, alle famose “marchette” che si andavano a consumare nelle vicine
città di Bologna e Reggio Emilia. Di
“Quegli antichi luoghi perduti…” ne ha fatto uno splendido
“spaccato” il noto “oste” modenese, Claudio Camola, in una delle
pubblicazioni del “raccoglitore di cose modenesi”, Beppe Zagaglia. I
concittadini che non ebbero la possibilità di frequentare le case di Via
Catecumeno, oggi Via dei Tintori, impararono perfettamente la toponomastica
delle zone “off limits” delle città vicine e si “passavano parola”
delle “variazioni” che avvenivano ogni quindici giorni in Via dell’Orso,
in Via Clavature ecc. Le processioni dei geminiani verso i territori limitrofi
sarebbero da raccontare per esteso; chi in treno, chi in motoretta, qualche
“appassionato” anche in bicicletta, nelle poche auto stracariche, per
spendere meno, in un quotidiano, pomeridiano e serale, pellegrinaggio, furono
il tributo aggiuntivo che i modenesi diedero a quella legge. Le “case di
piacere” chiuse diedero, in pratica, un eccezionale contributo alla
proliferazione della “libera prostituzione” con relativi “magnaccia” e
malattie veneree che da allora sono aumentate in una progressione geometrica
per arrivare alle forme di allucinante mercimonio sulle strade che
quotidianamente abbiamo sotto i nostri occhi. “Alla faccia”
dell’emancipazione femminile ricercata, utopisticamente, da
quell’innovatrice senatrice socialista.
La rotta del Po' nel Polesine
Nel
Novembre 1951 vi fu la drammatica rotta del Po’
nel Polesine. Di questo avvenimento ne sono stato testimone diretto. Quando
arrivò la notizia a Modena, noi studenti dell’Istituto “Barozzi” ci
mobilitammo immediatamente per cercare di portare il nostro aiuto a quelle
popolazioni. Ero tra gli organizzatori di questa mobilitazione e, nel giro di
poche ore riuscimmo a richiamare alla nostra iniziativa una trentina di
studenti; si partì immediatamente nel tardo pomeriggio, per raggiungere la
zona in quel momento più minacciata nelle vicinanze di Rovigo e fummo subito
inviati ad aiutare militari e volontari che lavoravano per la costruzione di
alcune “coronelle” sull’Adigetto, fiume vicino a Rovigo affluente del
Po’, che minacciava la città. Lavorammo in modo febbrile per alcune ore
quando ci fù un richiamo di “all’erta” immediato con l’invito a
lasciare immediatamente il lavoro intrapreso perché, a monte della nostra
zona, il fiume aveva rotto gli argini; dovemmo così ritornare immediatamente
in città dove, in un’atmosfera allucinante, strade deserte, solamente fasci
di luce delle cellule fotoelettriche che s’incrociavano nel cielo nero, le
auto della polizia che invitavano la popolazione ad evacuare le case, ci
trovammo sperduti e spaesati. Riuscimmo a raggiungere un punto di
concentramento per i soccorritori, volontari, esercito e quant’altro, quando
c’imbattemmo in un gruppo gestito dalla CGIL (Camera Confederale del Lavoro)
ovviamente di marca comunista, e vennero a sapere che noi eravamo un gruppo di
studenti, di conseguenza “nemici del popolo”, iniziarono un feroce
boicottaggio, con atteggiamenti provocatori e violenti. Dovemmo ripiegare su
altre postazioni dove, durante quella notte di tregenda, riuscimmo a portare
il nostro piccolo contributo a quel martoriato territorio devastato dalle
acque, ma nell’animo c’era rimasta la rabbia per lo scontro avvenuto con
le formazioni comuniste che, in quei drammatici momenti, quando
differenziazioni ideologiche e
politiche dovevano essere messe in disparte, cercavano di dimostrare alle
povere popolazioni del Polesine, che erano solamente “loro” e le loro
“organizzazioni” a portare gli aiuti. Dopo due giorni, attraverso un
viaggio rocambolesco, ritornammo a Modena.
Partita Pigiami contro Camicie da notte
Nelle
settimane successive per cercare di dare un ulteriore contributo a quelle
popolazioni così duramente colpite , organizzammo, noi studenti, allo Stadio
Braglia un incontro di calcio “estemporaneo”. La
partita “Pigiami” contro Camicie da notte” servì appunto a
raccogliere qualche fondo.
Le
due formazioni si presentarono in campo con le seguenti formazioni:
Pigiami:
Franco Belletti, Ninì Spigolon, Bruno Zucchini, Vittorio Giannotti, Giorgio
Libra, Carlo Poggio, Vittorio Lippolis, Luciano Poggioli, Giancarlo Bergomi.
Camicie
da Notte: Vittorio Bargellini, Giorgio Alessandrini, Ermanno Bertolini, Zanasi,
Alfonsino Bolognesi, Umberto Giannotti, Piero Lippolis, Giorgio Sandoni.
Arbitri:
Renzo Rossini e Giulio Piccinini.
E mail: civileguerra@virgilio.it
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